Secondo l'Architetto Piero Luigi Carcerano: “la città deve tornare a essere città”
Nel suo lucidissimo articolo pubblicato su Interiorissimi, Piero Luigi Carcerano (dello studio Frontiere Design) ci consegna una riflessione intensa, critica e profondamente attuale sulla crisi dell’identità urbana nella città postmoderna. Il testo si presenta come un manifesto appassionato per una nuova urbanistica etica, capace di opporsi alla logica del consumo che svuota il senso dell’abitare e delle relazioni.
L’autore parte da una provocazione solo apparentemente tautologica — “la città deve tornare a essere città” — per mettere a fuoco la perdita di coesione e significato che ha colpito lo spazio urbano contemporaneo. In una società in cui lo zoning, la specializzazione funzionale e la dispersione suburbana hanno minato ogni tentativo di coabitazione autentica, Carcerano propone il ritorno alla città compatta non come nostalgia ma come atto politico. L’isolato urbano — non più quello monumentale e chiuso del XIX secolo né quello disarticolato delle periferie moderne — viene riletto come cellula relazionale: un’interfaccia viva tra individuo e collettività.
Il cuore pulsante dell’articolo è la denuncia della trasformazione antropologica prodotta dalla mercificazione dello spazio. Le abitazioni, un tempo contenitori di storie e abitudini, vengono ora svuotate per diventare strutture temporanee per il turismo veloce, smarrendo ogni radicamento. In una frase pregnante, Carcerano osserva: “Questa politica del consumo travestita da offerta turistica non rigenera il tessuto urbano, lo svuota”. Il linguaggio si fa poetico ma mai retorico, nella descrizione di un paesaggio urbano in cui i codici di accesso hanno sostituito le voci dalle finestre, e i quartieri non hanno più un’identità ma solo una funzione commerciale.
Il testo si muove su un crinale raffinato tra saggismo e lirismo, tra analisi socio-urbanistica e affondo esistenziale. La riflessione si allarga dalla città al linguaggio della politica e alla cultura dell’algoritmo, che frammentano e classificano, invece di ascoltare e connettere. Ne emerge un quadro amaro ma chiarissimo: non siamo più cittadini ma utenti, non più abitanti ma consumatori in transito.
Eppure, nella critica, c’è anche una proposta. L’urbanistica, dice Carcerano, non deve rincorrere la spettacolarizzazione, ma ricostruire senso e permanenza. L’architettura, quando è vera, è arte civile: è al servizio dell’uomo e delle sue emozioni. L’autore invita a progettare quartieri dove il tempo sia “alleato, non nemico”, e dove la densità sia un valore umano, non solo morfologico.
Questa visione, che rifiuta l’ottimizzazione cieca in favore dell’appartenenza, restituisce alla disciplina dell’urbanistica il suo compito originario: fare spazio all’umanità. Carcerano ci ricorda che l’abitare non è solo una questione funzionale, ma soprattutto una pratica identitaria e affettiva. La città deve tornare a essere luogo d’incontro, memoria viva, laboratorio di coesione.
“Il quartiere negato nella città del consumo” è un testo coraggioso, che parla con urgenza non solo a urbanisti e architetti, ma a tutti noi che abitiamo — o vorremmo abitare — città più umane. È una chiamata alla resistenza, alla progettazione consapevole, alla responsabilità collettiva. Perché, come recita la chiusa dell’articolo, “una città senza relazioni è una città che muore”.
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