L’Europa chiama i ricercatori USA: un nuovo orizzonte per la scienza in fuga dagli Stati Uniti

 


Mentre il sistema della ricerca statunitense subisce tagli draconiani, desertificazioni finanziarie e l’erosione dei principi di equità e inclusione, l’Europa si propone come nuovo porto sicuro per scienziati e ricercatori di tutto il mondo. A testimoniarlo è l’azione concreta dell’Unione Europea, che non solo potenzia i suoi programmi di finanziamento alla ricerca ma incentiva l’arrivo di menti brillanti da altri continenti, configurandosi come un'alternativa credibile e visionaria rispetto al modello americano sempre più minacciato.

I numeri parlano chiaro. Negli Stati Uniti, la National Science Foundation è stata colpita da un taglio del 78%, mentre il National Institutes of Health ha visto ridursi i propri fondi del 40%. Le ricerche ambientali e climatiche sono state praticamente smantellate, minacciando non solo il futuro delle carriere accademiche ma la possibilità stessa di rispondere, in modo scientificamente fondato, alle crisi globali in corso. Una tale decimazione dei fondi non può essere letta soltanto in chiave economica: essa rappresenta una dismissione simbolica del sapere come bene comune e strategico.

In questa crisi sistemica, l’Europa risponde con fermezza. I finanziamenti dell’European Research Council (ERC) restano tra i più ambiti e stabili al mondo, con tassi di successo attorno al 14% – ben superiori al modesto 3% dei bandi del Fondo Italiano per la Scienza (FIS) – e una missione chiara: sostenere la ricerca di frontiera, libera, indipendente, ad alto impatto. A ciò si aggiungono gli strumenti del Programma Horizon Europe, che con un budget complessivo di oltre 95 miliardi di euro rappresenta il più vasto investimento pubblico europeo nella ricerca e nell’innovazione.

Non si tratta solo di fondi, ma di visione. L’Unione Europea sta mettendo in campo politiche attive per attrarre ricercatori internazionali, semplificando le procedure di mobilità, valorizzando le competenze acquisite all’estero e promuovendo ecosistemi scientifici transnazionali. Le università e i centri di ricerca europei vengono così rafforzati, non solo per competere ma per diventare veri poli di eccellenza intellettuale in grado di attrarre talenti da tutto il mondo.

Questo scenario si incrocia anche con le contraddizioni interne al sistema universitario italiano, dove l’adozione cieca di metriche quantitative e performance valutative rischia di soffocare la libertà del pensiero critico e la qualità del sapere. Tuttavia, proprio in questa fase di ridefinizione profonda, l’Italia potrebbe scegliere di rilanciare, orientando i bandi nazionali verso il sostegno alle carriere iniziali dei giovani ricercatori, e puntando su una riforma dei PRIN (Progetti di Ricerca di Interesse Nazionale) per incentivare reti collaborative e interdisciplinari.

Non è utopia. Alcuni atenei europei stanno già attuando programmi di reclutamento internazionale, offrendo condizioni di lavoro dignitose, supporto amministrativo per progetti e bandi, accesso a reti internazionali e ambienti di ricerca stimolanti e inclusivi. La mobilità scientifica oggi è anche una forma di resistenza gentile: chi si sposta non sempre lo fa per convenienza, ma per sopravvivenza intellettuale.

L’Europa ha oggi l’opportunità storica di ribadire la propria identità come spazio di libertà, pluralismo e innovazione. Accogliere i ricercatori che fuggono da un’America sempre più aziendalista e disillusa significa rilanciare un progetto culturale e politico basato su una nuova centralità della conoscenza, della collaborazione e della giustizia sociale. È il momento di agire non per rincorrere l’idea di eccellenza imposta da classifiche e algoritmi, ma per difendere la dignità del sapere come bene comune.

Il futuro della scienza non è scritto. Ma se oggi esiste un luogo dove il pensiero può ancora respirare, dibattere, dubitare, crescere e – soprattutto – essere condiviso, quel luogo può e deve essere l’Europa.

Nessun commento

Powered by Blogger.